martedì 29 luglio 2014

Agnelli, dittatori e paradossi

E' iniziato tutto con l'agnello.
Il mio vegetarianesimo non è condiviso in famiglia. Una figlia ci proverebbe se solo delle quattro cose che le piaciono due non fossero carne, mentre l'altra figlia e il marito sono carnivori convinti.
Mi piaccia o no, almeno due o tre volte la settimana devo cucinare carne. Però sono quella che fa la spesa, quindi vige il principio che i cuccioli non si comprano: in casa mia puledro, vitello e agnello sono totalmente banditi. Le figlie condividono in pieno, il marito si adegua in silenzio per quanto riguarda puledro e vitello (solo perchè sostiene che siano poco saporiti), mentre protesta per l'agnello. Tre contro uno e soccombe: una coscienza proprio non sono riuscita a fargliela venire.
Una sera al mare, tra la smisurata quantità di cibo a disposizione, c'era l'agnello. Devo precisare che con noi c'erano due miei carissimi amici con cui vado molto d'accordo ma che, essendo esseri umani, hanno i loro difetti (pochi, per la verità). Uno di questi è la quasi totale mancanza di sensibilità verso gli animali. Hanno un cane (che peraltro trattano benissimo) ma solo per volere del figlio e comunque non si pongono il benchè minimo problema riguardo la sofferenza che sta dietro la produzione di carne. Lei è anche figlia di un cacciatore....
Quella sera mio marito ha espresso la volontà di mangiare l'agnello e io gli ho semplicemente detto: "Fallo e lo dico alle tue figlie".
E da qui sono partiti gli strali.
Sono stata accusata di essere una prevaricatrice, di voler imporre la mia volontà con la forza e via delirando. Ho ribattuto che uno deve lottare per quello in cui crede e ho provato a spiegare le mie ragioni ma sono stata zittita con il classico "Vuoi avere ragioen? Hai ragione!" ripetuto all'infinito ogni volta che tentavo di aprire bocca per chiarire il mio punto di vista, da parte del mio amico, che di solito è una persona che evita i conflitti e si lascia scivolare addosso le cose.
Ho incassato (esteriormente) mentre ribollivo, più di frustrazione che altro.
E di notte ci ho perso il sonno per riflettere.
E mi sono convinta che è utopico pensare di non prevaricare mai niente e nessuno, anche non volontariamente. Perchè ogni no che pronunciamo è in un certo senso una prevaricazione: si impone la mia volotà sulla tua.
Educare i figli comporta una serie di prevaricazioni, far quadrare i conti anche, scegliere qualcosa che coinvolga altri pure... Classico esempio, un po' banale ma efficace. In famiglia uno vuole tenere un animale e un altro no. Comunque si decida, uno dei due prevaricherà l'altro, non ci sono scappatoie.
E quindi mi sono chiesta fino a che punto sia giusto lottare (e quindi cercare di imporsi)  per ciò in cui si crede e addirittura se sia lecito o meno farlo.
Non è poi così semplice.
Da una parte ho un profondo rispetto nei confronti del pensiero di Gandhi, sono una pacifista e una non violenta, ma qualunque sia il mezzo usato c'è sempre una volontà che si impone su un'altra ogni volta che ci sono due differenti visioni di uno stesso fatto, cioè in pratica sempre. E poi rinunciare, lasciar fare, non decidere, seguire la corrente... non è forse semplicemente subire (sia pur volontariamente) la decisione di altri, cioè lasciarsi prevaricare?
Ci penso, ci penso e non trovo una soluzione. O almeno, arrivo solo a concludere che ci sia un piccolo dittatore nascosto in fondo ad ogni persona: chi lo nasconde meglio e chi peggio, chi lo asseconda e chi no, chi ne è consapevole e chi lo nega, ma c'è, sta lì. Ognuno vorrebbe il mondo secondo la propria visione e il paradosso è che anche il più pacifista (in tutti i sensi) degli uomini se ottenesse la pace prevaricherebbe chi vuole la guerra.
E allora tanto vale lottare per ciò in cui si crede, sempre e comunque. Con garbo, con delicatezza, con pazienza ma con tencica e costanza.
 E quindi credo che ai miei amici, alla prima occasione, regalerò "Se nulla importa" di Safran Foer. E mio marito continuerà a non mangiare l'agnello (almeno in mia presenza).
Con buona pace di chi crede che dentro di sè non alberghi il piccolo dittatore.